Copia di Novita in libreria PER SITO1 2

Continuiamo con l’alfabeto della metropolitana di Parigi…

F – FUORI

Metro, boulot, dodo.
La metro, il lavoro, la nanna.

La vita dei parigini è riassunta in modo impietoso da questa frase.
Il tran tran quotidiano, che si ripete sempre uguale, all’infinito.
A Parigi, come in tutte le grandi città del mondo occidentale, la vita quotidiana é scandita da percorsi che si ripetono. Ognuno ha i propri piccoli rituali, più o meno piacevoli. C’è chi medita o va a correre prima di andare al lavoro. C’è chi punta la sveglia all’ultimo e inanella bestemmie mentre cerca di svegliare i figli, per portarli a scuola quasi in orario. La colazione inglese o il caffè con la sigaretta. Il traffico in tangenziale o la metropolitana. Il lavoro, la spesa, il cane da portar fuori, la lettiera del gatto da svuotare, il sacchetto della spazzatura dimenticato vicino alla porta. Perfino i fine settimana si riempiono di abitudini. Le lavatrici, i mestieri, il pranzo dai suoceri, la stessa passeggiata ogni volta.
L’uomo possiede il libero arbitrio. E lo usa per rifare, giorno dopo giorno, le stesse identiche scelte.
Fino allo sfinimento.
La stupidità umana è senza limiti.
Adoro la metropolitana.
Quando non sono obbligata a prenderla tutti i giorni.
Odio la metropolitana.
(La coerenza non è la mia miglior virtù, lo ammetto.)
In questi mesi che precedono le Olimpiadi, i trasporti pubblici sono costantemente bloccati per motivi di manutenzione. “Stiamo lavorando per garantirvi un miglior servizio”. Chissà se quelli che lo dicono ci credono veramente. Intanto i tempi di attesa si allungano e il costo dell’abbonamento mensile aumenta. A volte mi sento un topo di laboratorio, condannato a errare in un  labirinto di cartone.
Perché Parigi è grande. Perché le mie giornate sono lunghe. Perché vivo nel profondo est, lavoro a sud-ovest, ho un compagno a sud-sud-est, gli amici a nord-est, il bar degli aperitivi in centro, la piscina a est-nord-est, l’oculista a sud-ovest. Perché quando rientro la sera ho accumulato più ore di trasporti io che un tramviere meneghino.
E poi succede. Sono sulla linea 6 della metropolitana, ho il naso infilato in un libro e il gomito del vicino infilato nelle mie costole, e di colpo succede. I vagoni risalgono in superficie e dai finestrini si vede la Senna scintillante.
Smetto di leggere e il vicino smette di tirarmi gomitate. Tutti i passeggeri guardano fuori.
Fuori dalla metropolitana esiste una città che amo.
Allora mando al diavolo il lavoro, il dentista, la piscina, il compagno, gli amici, l’aperitivo e mando al diavolo anche la metropolitana.
Vado fuori e inizio a camminare senza meta per la città. In francese c’è persino un verbo per indicare quel che faccio: flâner.
Non importa se fa freddo o caldissimo. Nemmeno la pioggia mi disturba, quando ho deciso di flâner per le strade.
Un vero flâneur non ha bisogno di nulla. Non mi serve l’ombrello, posso dimenticare a casa il portafogli, persino il mio quaderno e la penna non sono necessarie.
Una sola cosa è indispensabile: il tempo.
Si deve essere padroni di tutto il tempo del mondo.
Quando prendo la metropolitana, arrivo sulla banchina e subito controllo quanto tempo manca all’arrivo del treno. Due minuti è un tempo accettabile. Meno di due minuti significa che ho avuto fortuna. Sopra i tre minuti sbuffo e lancio occhiate complici agli altri viaggiatori che sbuffano assieme a me. Sopra i sette minuti iniziamo tutti in coro ad insultare la Sindaco di Parigi.
Non ha nessuna importanza il fatto che io sia di fretta o meno: sprecare più di due minuti ad attendere l’arrivo del métro è intollerabile.
Allora vado fuori.
Fuori, i sette minuti che mi parevano una tragedia smettono di esistere.
Quando sono fuori per gironzolare senza meta, l’orologio scompare.
A volte il mio stare a zonzo dura un’ora o poco meno o poco più. Altre volte posso vagare per una giornata intera. La fame sparisce e i piedi fanno male solo dopo essere tornata a casa.
Quattro, cinque, otto ore fuori.
Chi fra di voi starà pensando che non può permettersi di perdere otto ore del proprio tempo, dovrebbe provare.
Non ho intenzione di descrivere quel che faccio, vedo o provo durante il mio flâner.
Se volete saperlo, dovete infilare delle scarpe comode, lasciare a casa l’orologio e uscire per strada.
Posso solo promettervi che nessun istante di quelle otto ore è stato per me un tempo perso.
I due minuti ad aspettare sulla banchina sono tempo perso.
Vivere la città a cui sento di appartenere non è mai tempo perso. Quando rientro a casa e richiudo la porta, tolgo le scarpe e mi accorgo che ho vissuto in poche ore un viaggio lungo e rigenerante.
Ho l’impressione di essere stata via per mesi. Qualcosa in me è cambiato. I sensi che sonnecchiavano, dopo mesi di metro, boulot, dodo sono tornati vigili.
Flâner significa per me fare il pieno di ossigeno fra due tuffi. 
Domani prenderò di nuovo la metropolitana, cercando di non dimenticare che là fuori esiste la mia  Parigi.

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