In attesa dell’attesissima uscita di “Le città del cinema”, la guida ai luoghi dei film cult girati in Italia in collaborazione con MyMovies, che sarà presentata nell’ambito el prosismo Festival del Cinema di Venezia, vi anticipiamo l’incipit del capitolo su Milano firmato dal grande giornalista Pino Farinotti.
MILANO di Pino Farinotti
I luoghi canonici milanesi, dal Duomo alla Scala, ai Navigli, ai palazzi, alle chiese, al Castello, eccetera, sono diventati, nei film delle varie epoche “attori” veri, modelli che servivano per un’indicazione del momento. Un esempio: in Totò Peppino e la malafemmina, Totò e De Filippo arrivano a Milano, in piazza del Duomo, d’estate, e indossano colbacco e pelliccia «perché a Milano c’è la nebbia e fa freddo». Si rivolgono a un vigile urbano chiamandolo “generale austriaco” e gli parlano in un francese alla Totò: «Noi vulevòn savuar».
In quegli anni Milano era un contenitore di tutti i dialetti, i napoletani come Totò e De Filippo erano i terroni quando non erano gli africani. Lo scontro linguistico, e non solo, veniva rappresentato anche così, col sorriso.
Piazza del Duomo è attraversata in macchina dalla Loren e da Mastroianni in un episodio di Ieri, oggi, domani. Nanni Loy usa la piazza per il gruppetto di rapinatori ridicoli inventato da Monicelli in L’audace colpo dei soliti ignoti. E ancora, Renato Pozzetto e Dalila Di Lazzaro attraversano il sagrato su un carro trainato da buoi in Oh Serafina! Il Duomo, presenta anche un simbolo che vive di luce propria, la Madonnina. La mostra, fra gli altri anche un maestro, Ermanno Olmi nel suo L’albero degli zoccoli.
E poi il Duomo, naturalmente. La cattedrale evoca a sé alcune primogeniture, è legittimo. Lo citano i fratelli Lumière nel loro Catalogo italiano ed è oggetto del primo documentario girato sulla città, Stramilano di D’Errico. Siamo nel 1929.
Il Duomo, un gotico spurio, è pur sempre un gotico. Un richiamo ai paesi del Nord, dove la luce è soffusa e occorrono alte finestre. Milano è città di non abbagliante luce, il Duomo può essere quella metafora, anche nei film. Anche se poi sarà tutto, da Totò, a Gassman, a De Sica, Sordi e tanti altri.
Il primo vero film milanese si apre proprio sul Duomo, e porta due nomi importanti, Mario Camerini, direttore, e Vittorio De Sica, protagonista: Gli uomini che mascalzoni, 1932.Un titolo da doppio o triplo culto. Ai cineasti si aggiungevano due nomi forse meno noti, ma che vanno fatti, Ennio Neri e Andrea Bixio, paroliere e compositore di Parlami d’amore Mariù, la strepitosa canzone che De Sica e Pia Lotti ballano nella taverna sul Lago Maggiore, dunque Milano “allargata”. I due risolveranno amore ed equivoci alla Fiera Campionaria, dunque Milano&Milano. Il rapporto Duomo-De Sica avrà altri momenti, uno altissimo, con De Sica non più attore ma regista del mondo, Miracolo a Milano. Quel film era una suggestione e un contrappasso, magari una provocazione. Era la storia di “angeli poveri e matti” che vivono nelle baracche della periferia. Quella chiave, legata a Milano non poteva che essere “surreale”, appunto. Ma De Sica andava bene comunque, si era conquistato tutte le franchigie, anche quella di rappresentare Milano come “baracche”.
E non dimentichiamo la Scala. Carmine Gallone, nel suo Casa Ricordi racconta la vicenda dei famosi editori di musica. La Scala, dunque, diventa la costante del grande melodramma italiano. Fra gli episodi eroici il leggendario Va’ pensiero che scaldò i cuori dei milanesi. E Toscanini che il 29 novembre del 1924 interruppe il concerto per annunciare la morte di Giacomo Puccini. Naturalmente il grande direttore è legato a più fili al teatro. L’11 maggio del 1946 Arturo Toscanini inaugurò la nuova Scala, che era stata semidistrutta dai bombardamenti del ’43, con La gazza ladra di Gioachino Rossini. Fu un trionfo ripreso dalle radio di molti paesi. Anche un concerto di due maestri italiani, compositore e direttore, poteva concorrere a cercare di far dimenticare la guerra. Se poi la piattaforma era quella della Scala…
Roberto Rossellini ricostruì in teatro la Scala ferita dalla guerra. Vittorio De Sica, nei panni del generale della Rovere, ci passa davanti, scuotendo il capo.
Un altro maestro accreditato, Michelangelo Antonioni fa incontrare gli amanti Lucia Bosè e Massimo Girotti sul piazzale davanti alla Scala in Cronaca di un amore. Vittorio De Sica, questa volta regista, gira una scena fondamentale del suo Miracolo a Milano davanti al teatro del Piermarini. È quando un barbone ruba la borsa a Totò il buono, che poi segue il ladro fino alle baracche di Lambrate. Dunque da simbolo, la Scala, a simbolo, le baracche di periferia.
E ancora, Alberto Sordi fa il vigile davanti alla sede centrale della Banca Commerciale, di fianco alla Scala. È lì che lui, romano, fa la famosa domanda, diventata un tormentone: «Cusa fa chi a Milàn con stu cald?».
Una citazione (quasi) contemporanea vale per Aldo, Giovanni e Giacomo. Aldo lavora come comparsa alla Scala in Chiedimi se sono felice, del 2000.
Nel quadro milanese del cinema non può mancare un nome che certo non è così popolare, ma che va fatto, quello di Italo Pacchioni. Nato a Mirandola ma trasferitosi bambino a Milano, nel 1891 gestiva già uno studio fotografico in città con succursali a Busto Arsizio e Abbiategrasso. Nel 1895 ebbe modo di vedere L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat, dei Lumière, il secondo filmato in assoluto della storia del cinema. Ne fu talmente colpito che si recò a Parigi per comprare una macchina dagli inventori. I Lumière volevano naturalmente mantenere il monopolio dell’invenzione, e dei film, e rifiutarono. Pacchioni non si arrese e insieme a suo fratello e a un meccanico, riuscì a fabbricare una macchina da presa e un proiettore e a girare il suo primo film, che è anche, probabilmente, il primo film italiano. Si intitolava L’arrivo del treno alla stazione di Milano. Era il 1896. Un anno dopo, dunque il “cineasta” aveva raggiunto i Lumière. Inquadrando quel treno che entrava in stazione Pacchioni aveva creato un codice cinematografico importante. Si trattava della porta della città, in stazione si arrivava e si partiva. Significava molto: immigrazione, fuga, partenze e ritorni, disagio sociale e criminalità.
Negli anni Cinquanta e Sessanta a Milano giungevano in tanti, da lontano. Un modello che fa testo è l’arrivo di Rocco, Rosaria e Simone Parondi, la famiglia di Rocco e i suoi fratelli. Lo sbarco in stazione secondo Visconti è già l’annuncio che il destino non sarà felice. Altri due fratelli, certamente diversi, arrivavano a Milano nel 1956, erano i Capone, Totò e Peppino De Filippo, in Totò Peppino e la malafemmina. Dopo il disastroso colpo dei “Soliti ignoti” a Roma, dove invece di scassinare una cassaforte piena di gioielli avevano “rubato” pasta e fagioli, la “banda” si trasferisce a Milano per un colpo allo stadio. Gassman, Salvatori, Manfredi e Murgia si ritrovano sulla scalinata della stazione per rimettere a punto il piano dopo che sono sopraggiunti degli imprevisti.
Dopo molti anni, dai tempi di “Miracolo”, De Sica tornava a Milano. La situazione era molto diversa. Il regista non doveva più dirigere attori presi dalla strada e inseriti in una storia di fantasia, ma aveva nel cast due campioni che gli toglievano molte fatiche. E anche la storia era molto diversa. Ne I girasoli, tempo di guerra, Marcello Mastroianni cerca di evitare la Russia fingendosi malato, ma il trucco non gli riesce. Si sa, pochissimi sarebbero tornati da quel fronte. Sophia Loren è la moglie che attende invano il suo ritorno alla stazione. Marcello tornerà, ma dopo essersi fatto una famiglia in Russia. Dunque: stazione di Milano struggente, secondo De Sica.