Da Fabio Mongardi, autore per Morellini del romanzo “Le carezze dei lampi”, arriva in esclusiva per i nostri lettori il racconto “Bolle”. Buona lettura!

L’infermiera guardò il vecchio come se non avesse capito, come se il timbro basso e stentato di quella voce fosse solo un suono o un rumore, rimbalzato nell’aria immobile e dolente di quella stanza di ospedale. Eppure, la richiesta dell’uomo era semplice: cambiare la bottiglia d’acqua naturale con una frizzante. Se la donna avesse chiesto la ragione di tale desiderio, lui non avrebbe saputo rispondere, poiché non lo sapeva. Mai nella sua lunga vita aveva preferito bevande frizzanti, persino nella scelta del vino si era sempre orientato verso quello fermo. Invece quel giorno chiese di cambiare bottiglia.
“Ora sono occupata, gliela porto più tardi”, rispose infine lei, avviandosi verso l’uscita.
Il vecchio rimase con la testa girata verso la porta chiusa. Dal corridoio arrivava l’eco di un mondo che pareva distante: carrelli che si muovevano, passi veloci, risate, suoni. La vita da qualche parte continuava, ma lui non ne sentiva più la mancanza, stava bene in quella dimensione protetta, in quello spazio neutro, equidistante fra il caos e il silenzio assoluto. Nella stanza c’erano altri due letti vuoti e la luce entrava dai vetri offuscati di una finestra in alluminio. Era luce soffusa, senza i toni accesi della luce naturale, come se la terra fuori fosse illuminata da un gigantesco lume al neon.
Il vecchio fissò il soffitto incolore e lasciò che le palpebre scendessero lentamente.
Gli vennero incontro pezzi di memoria, facce, suoni e odori, testimoni di un passato, fantasmi di un mondo scomparso per sempre, e gli sfilarono davanti immobili, come statue senza tempo. Per tutti loro c’era un sorriso o una parola. Anche Raimond, il tedesco che gli uccise l’unica mucca che teneva nella stalla, ottenne un sorriso. E l’altro tedesco, quello dai denti gialli, che voleva sparargli sotto il noce, gli fece piacere rivedere anche lui.

Dalla porta entrò un inserviente con la scopa. Lo guardò mentre puliva il pavimento.
“Senta…”
“Sì?”
“Mi potrebbe cambiare la bottiglia?”
“Mi dispiace, ma non sono autorizzato, lo deve chiedere all’infermiera.”
La porta si richiuse e rimase di nuovo solo. Ascoltò il cuore che scandiva lentamente un ritmo stanco dentro a un corpo che ormai sembrava non appartenergli più. Quei colpi, così lenti, vibrati, come gli ultimi passi di un soldato stremato dalla fatica che si ostina ad andare avanti, gli procurarono una leggera ansia. Avanti! Sembravano dire. Ancora! Ancora! Ma per andare dove? Non c’erano più traguardi in vista.
Gli pareva che il mondo avesse girato tanto forte da portarlo in un posto sconosciuto, dove il passato era diventato il suo presente.
Richiuse gli occhi e si addormentò.
Sognò di essere morto, sdraiato in una terra che non conosceva. Non c’era dolore o ansia, ma sollievo nel vedere le sue spoglie inermi mentre si decomponevano. Poi, quando ormai tutto era finito, dalla massa dissolta uscì un altro corpo, simile al primo. Di nuovo si sfaldò e ancora ne uscì un altro. Intanto percepiva un suono profondo, un battito lento, regolare, come il colpo di un martello sull’incudine.
La porta della stanza si aprì e un dottore in camice bianco entrò seguito da un’infermiera.
“Come va?” chiese.
Il vecchio si guardò attorno.
“Questo… questo suono, da dove viene?”
“Suono? Io non sento suoni, forse è qualcuno passato nel corridoio con la radio accesa”.
“No, no, è come… ha un timbro metallico e mi ricorda qualcosa…”
Il dottore guardò l’infermiera.
Adesso ricordava, sì, nei film dove c’erano sommergibili si sentiva spesso: era una vibrazione che sembrava salire dal fondo del mare, come se laggiù, nel buco nero degli abissi, ci fosse un enorme cuore di metallo che pulsava.
Il dottore si avvicinò e gli appoggiò una mano sulla fronte.
“Adesso le faccio portare un calmante, intanto provi a dormire.”
Controllò la flebo, poi si avviò verso la porta.
“Dottore!”
“Mi dica.”
“Una cortesia, vorrei cambiare la bottiglia dell’acqua.”
“Come mai?”
“Ne vorrei una frizzante.”
“Va bene, gliela faccio portare subito.”
Rimasto solo si guardò attorno. Il cuore di metallo batteva ancora, lo sentiva il suono, era lento ma regolare. È il mio, pensò. Controllò l’angoscia con respiri profondi e cercò di distrarsi abbandonandosi ai ricordi.
Vide una strada coi sassi bianchi e la polvere che ricopriva l’erba sul fosso. Il cancello con le piante del glicine ai lati e più avanti, di fianco alla casa dai muri grigi, una persona curva, intenta a tagliare l’erba con la falce. La camicia dell’uomo era bagnata di sudore, tanto che ne sentiva l’odore aspro, mescolato a quello dolciastro dell’erba tagliata.
La falce saliva e scendeva con ritmo lento.
Le rondini volavano basse sul campo, come fanno quando è sera e tracciavano cerchi che scendevano quasi a terra. Una donna si affacciò alla finestra della casa urlando qualcosa. L’uomo si fermò, guardò verso la donna, poi l’erba appena tagliata. La falce su cui stava appoggiato aveva la lama umida rivolta verso il cielo. Si passò una mano sulla fronte sudata e tornò lentamente verso la casa, mentre le rondini continuarono senza sosta a salire e scendere in cerca di insetti.
Dov’era finito quell’uomo? E le rondini che fischiavano nella sera? Fece scorrere avanti il tempo e un esercito di fantasmi gli sfilarono di fronte. Dov’erano finiti tutti? Rimaneva solo quel mondo di spettri, quel pianeta popolato dalle scolorite vestigia di quello che era stato, quell’universo confluito nei sogni e destinato a spegnersi con il suo ultimo respiro.
Aprì gli occhi.
La luce fuori dalla finestra era calata leggermente. Gli sembrò di avere varcato un confine e che quella stanza spoglia, con le pareti azzurrine leggermente ombrate verso il soffitto, fosse più lontana dei suoi fantasmi. Un battito, una lieve contrazione del cuore, quello era l’ultimo avamposto, l’ultima porta rimasta aperta fra i due mondi.
Entrò di nuovo l’infermiera. Aveva nelle mani un bicchiere e una bottiglia.
“Beva questo, si sentirà meglio “disse.
Posò sul comodino l’acqua frizzante. Il vecchio girò la testa verso la bottiglia. Piccole bolle d’aria salivano dentro al liquido, lentamente, dal fondo fino alla cima, dove esplodevano silenziose. È così, pensò, come bolle si sale, si sale, e poi pluff… tutto finisce, senza rumore, in niente.

Fabio Mongardi è nato e vive a Faenza.
Ha pubblicato con la casa editrice Mobydick: Il guinzaglio, Il verdetto muto, tradotto in Germania dalla Scherz Verlag, (oltre 5000 copie vendute e cinque stelle su Amazon), La donna dell’isba. Con Giraldi: Ombre di notte.
Suoi racconti sono presenti nelle antologie assieme a scrittori come: Eraldo Baldini, Carlo Lucarelli, Francesco Guccini, Stefano Tassinari.
Inoltre ha vinto la sesta edizione di Orme gialle (Pontedera) e il Premio Speciale Territorio del concorso letterario “Graphie (Cesenatico); finalista al Premio Arcangela Todaro-Faranda.

Pagina Facebook dell’autore: https://www.facebook.com/mongardifabio

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