Palazzo Ranieri,
Dottor Bronte
Con il primo fine settimana di agosto, Milano si svuota lasciando le strade irrorate dai rivoli di pioggia degli acquazzoni che non danno tregua. Resta immobile, preda di zanzare sonnolenti che agitano i sonni di chi è rimasto in città. Le partenze intelligenti sono iniziate e con loro le auto stipate di valigie traboccanti abiti e creme solari, vettovaglie e giochi per il mare che diventeranno appannaggio delle spiagge, caotici crocevia di pelli bruciate dal sole. I più scrupolosi hanno riempito borse frigo di panini farciti di frittate avvolti nella carta stagnola, per circoscrivere al minimo le soste in autogrill, dove si fermeranno solo in caso di urgenze non procrastinabili. Con l’aiuto di una APP di geolocalizzazione hanno studiato il percorso più celere per raggiungere la destinazione dei loro sogni. Che quest’anno, come lo scorso d’altronde, ha orizzonti locali. Perimetri rassicuranti a tutela della propria salute.
Palazzo Ranieri si è svuotato, ma solo in parte. Oreste mantiene il presidio sulla guardiola per svernare, come le rondini, a settembre, quando i condomini di cui sta vegliando gli appartamenti e bagnando le piante in loro assenza saranno rientrati.
Il dottor Bronte, sistemate le due prime mogli in un residence a Punta Volpe in Costa Smeralda, e spedita quella in carica insieme con il suo unico erede a Santa Margherita, si gode l’orizzonte metafisico di una Milano di specchi e grattacieli, trascorrendo in solitudine quella che lui chiama “la vera vacanza”. Nessuna moglie questuante carte di credito, nessun bambino piangente da portare il mercoledì a calcetto e il martedì in piscina, ma pizza al trancio tutte le sere, che un runner puntuale gli recapita sul pianerottolo di Palazzo Ranieri, e una birra ghiacciata, quella col baffo, perfetta per scandire partite di pallone o vittorie olimpiche. Senza nessuno che gli ricordi come “il grasso dopo i cinquant’anni si deposita sul punto vita per non andarsene più” o che gli dica che “il reflusso non è un’opinione ma un salmone che non smette di risalire la corrente”.
Ha consultato la sua APP del meteo e aspetta la sua pizza. Sempre la solita, peperoni, salsiccia e cipolla di Tropea, che digerirà alle tre di notte con due Gaviscon e un bicchiere d’acqua e Citrosodina.
Dopo la pioggia torrenziale del pomeriggio nessuno si sarebbe immaginato che il cielo di Milano si aprisse come la corolla di un fiore, ma Bronte era fiducioso a riguardo. Per questo, in cambio di una mancia, ha ottenuto le chiavi per accedere alla terrazza, casualmente dimenticate dal portinaio dietro la tendina della guardiola. Le recupera con un gesto rapido prima che dall’ascensore sbuchi quell’impiccione di Supremi, a cui sorride sotto la mascherina incrociando le braccia dietro, in modo da non essere colto in flagranza di reato. Poi, approfittando dell’ascensore al piano, sale sul vecchio Stigler che a singhiozzi lo porta sulla cima del palazzo e finalmente, con la pizza che lo guarda dal cartone, si gode il suo spettacolo.
Dal decimo piano Milano è costellata di luci. I lampioni, lucciole accese verso una notte che comincia, la croce verde intermittente della farmacia di turno, le finestre e il riflesso dei monitor che bruciano serie, perfino le fiamme dei fornelli attraverso le finestre del palazzo di fronte. Addenta vorace una fetta da cui scivola un filo di mozzarella bollente. Si scotta la lingua e il suo sguardo si posa a Est, dove il sole va a morire e la Torre Velasca, imbragata nelle sue bretelle di cemento, si lascia lambire da un vento leggero.
Bronte, prima della pandemia, ci è salito parecchie volte al venticinquesimo piano di quel palazzone così decontestualizzato da essere perfettamente inserito nel tessuto milanese. Era invitato alle feste a porte chiuse promosse da Unipol, il colosso assicurativo che aveva splendidi appartamenti in gestione. Ma quando le porte dell’ascensore si aprivano, non resisteva e, sebbene l’etichetta avrebbe imposto, come prima cosa, di cercare l’organizzatore per complimentarsi, lui tirava dritto, afferrava una flûte dai vassoi d’argento porti dai camerieri in livrea e, evitando le facce amiche per il cerimoniale del saluto, attraversava la sala e raggiungeva il terrazzo. Lì cercava la Madonnina, così vicina da poterla accarezzare, e le parlava, raccontandole cos’era successo dall’ultima volta in cui si erano incontrati.
Quella torre, che si apparecchiava di moda e si vestiva di design a seconda del calendario, adesso rimbomba del vuoto in attesa dei lavori che le restituiranno una nuova immagine nel 2023. Uscito l’ultimo inquilino, un avvocato a cui è stata accordata una congrua transazione perché abbandonasse i corridoi dedalici, da qualche giorno è completamente vuota. L’ultimo evento si era tenuto la notte del solstizio estivo, con Elio a presentare una serata di archi. La Madonnina, in quel frangente, aveva strizzato l’occhio ai talenti dell’Orchestra della Scala e al coro di voci bianche, bimbi il cui viso riparato da mascherine bianche, rosse e verdi appariva all’occhio del drone che li riprendeva, un tricolore di speranza.
Bronte non era stato invitato è un po’ ci era rimasto male, perché un congedo dal “torracchione di vetro e cemento”, come fu definito da un importante cantore neorealista, sarebbe stato necessario. Un ultimo saluto prima di vederlo rinnovato e imbellito avrebbe voluto darglielo. Come si fa con gli amori sul crinale del tramonto, che si celebrano con un’ultima volta, sia essa un bacio o qualcosa di più intimo, ma che resta il ricordo più bello. Una bolla di sapone evanescente e sfumata che fa rimpiangere il passato e che avvolge di malinconia ciò che non potrà più tornare indietro.
Bronte si domanda se resterà l’intonaco cangiante che assecondava il colore del cielo della metropoli ma che si tingeva di rosa la sera. Era un dettaglio che amava particolarmente: sbucando dalla fermata della metropolitana Missori, alzava lo sguardo e il torracchione rosa era davanti a lui.
Una lacrima gli rotola dall’occhio atterrando sulla pizza ormai fredda che ha lasciato a metà nel cartone. Distoglie lo sguardo che si appoggia ora sullo skyline di Porta Nuova: la Diamond Tower, il gigante di ventotto piani che fa sembrare un bambino il Pirellone, la nuovissima scheggia di vetro al civico 22 di Melchiorre Gioia e ancora più in là l’apostrofo di specchi di piazza Gae Aulenti. E mentre “pizza fredda e birra calda” gli ricordano la battuta di un film che non manca di rivedere ogni estate, guardando in basso e osservando le strade svuotate dall’esodo non può fare a meno di pensare: “Ci rialzeremo perché Milan l’è un gran Milan!”.
Dà un ultimo sorso alla bottiglia e, raccogliendo le sue cose, se ne torna all’appartamento. Poi si ricorda, lancia uno sguardo malinconico alla sua torre e le manda un bacio che nessuno vedrà.